La presentazione a palazzo Trentini del libro "L'ultimo sopravvissuto di Cefalonia" di Filippo Boni
La storia di lager e di gulag di un “eroe del quotidiano”: Bruno Bertoldi, 101 anni, sopravvissuto a Cefalonia
Foto allegata
Una
grande, viva e commovente lezione di storia, di vita e di pace e un
monito contro tutti i totalitarismi. Forse si può sintetizzare così
l’incontro di questo pomeriggio a palazzo Trentini con Bruno
Bertoldi, classe 1918 (101 anni!), “L’ultimo sopravvissuto di
Cefalonia” come s’intitola il libro scritto da Filippo Boni, un
giovane ricercatore toscano che ha raccolto l’incredibile vicenda
umana di quest’uomo. Bruno, nato nel campo profughi di Braunau, da
una famiglia di Carzano, fu testimone e uno dei pochi superstiti
dell’eccidio dei fanti della divisione Acqui a Cefalonia. Si salvò,
come ha raccontato oggi nella sala dell’Aurora con voce ferma e in
un italiano invidiabile, grazie al fatto che si trovò di fronte ad
un soldato della Wermacht suditirolese che aveva conosciuto nel ‘37
a Verona dove frequentava un corso di autiere dell’esercito. Un
certo Claus che lo riconobbe e non sparò. Ma l’avventura di
quest’uomo che oggi ha superato il secolo di vita, era solo
all’inizio. Nascosto dai greci dell’isola, venne ripreso dai
tedeschi, portato ad Atene e (sempre rifiutandosi di vestire, e come
trentino appartenente all’Alpenvorland avrebbe potuto farlo, la
divisa tedesca) finì in un campo di Leopoli in Polonia. Vita
durissima, stragi, paura, fame fino a quando i tedeschi incalzati
dall’Armata Rossa non abbandonarono i prigionieri al loro destino.
Catturato dai partigiani polacchi e poi, con tre amici italiani,
venne mandato in un campo di lavoro a Misk, di li a Mosca e infine
nel campo di Tambov, “Un inferno di morte e fame fino al
cannibalismo – ha raccontato Bertoldi – dove per sopravvivere
c’era chi apriva il costato dei morti per estrarne il cuore e
mangiarlo crudo, tagliandolo a fette sottili con un pezzo di lamiera.
Un luogo dove scoppiarono epidemie tremende. Un gulag peggiore dei
campi di concentramento tedeschi”. In questo inferno morì tra le
sue braccia uno dei suoi compagni di sventura che gli raccomandò di
avvertire la moglie dalla quale aveva avuto da poco un figlio che non
aveva mai potuto vedere. Figlio che, ormai adulto, in una notte di
Natale degli anni ‘70, ha ricordato Boni, bussò alla porta della
casa di Bolzano di Bruno Bertoldi per chiedergli di suo padre. E da
allora ogni Natale lo hanno passato assieme e passeranno assieme
anche il prossimo.
Sopravvissuto
a Tambov, nella primavera del ‘45, venne mandato a Taskent. Vita
dura anche lì, ma tollerabile. Fino ad una mattina dell’ottobre
del ‘45, la guerra era finita da mesi, quando Bruno venne raggiunto
nei campi di cotone dove lavorava da un cosacco a cavallo che disse:
taliaski a casa! Il treno fino a Vienna, la consegna agli americani
che disinfettarono questi uomini stremati, ammalati, pidocchiosi con
il ddt. Ma non era ancora finita. Bruno Bertoldi arrivò alla
stazione di Castelnuovo la notte di Natale del ‘45: nevicava
furiosamente, 10 gradi sotto zero. Lui, ridotto a 38 chili per un
metro e 80, non era neppure in grado di reggersi in piedi. Lo aiutò
a scendere con poca grazia un ferroviere e finì in un mucchio di
neve senza forze. Assurdo: stava per morire sulla porta di casa! Ma
la fortuna lo soccorse di nuovo. Nonostante la notte di bufera un
gruppo di ferrovieri uscì dall’osteria il Vapore perché si erano
dimenticati di apporre su un carro in partenza il mattino seguente le
etichette di viaggio. Uno di loro sentì il pianto di Bertoldi e
insistette con i colleghi per fare luce, per capire da dove venivano
quei lamenti. E così Bruno venne portato in salvo. Tutti in
paese lo consideravano morto, fucilato anche lui a Cefalonia come la
maggioranza dei suoi commilitoni. Nonostante i traumi, Bruno venne
curato per 6 mesi prima di riprendersi, si ricostruì una vita a
Bolzano. Una famiglia con tre figli, il lavoro in acciaieria e poi
alla diga di Cles.
Un
uomo eccezionale che ha vissuto e visto cose che avrebbero stroncato
chiunque. E questo del ritorno, del trauma psico – fisico di chi è
tornato dalla guerra (dalla guerra dei 30 anni, cioè dal Primo
conflitto fino al secondo, che Bruno, nato in un lager e liberato da
un gulag, ha attraversato) è stato uno dei temi toccati da Lorenzo
Gardumi, ricercatore della Fondazione Museo Storico. Mentre Filippo
Boni, autore del libro che racconta la storia di questo ex internato,
con nitidezza e bravura, ha narrato il rapporto con questo
straordinario centenario, di come abbia deciso di approfondire la
vicenda della tragedia della Acqui e dell’eccidio di Cefalonia (dai
150 ai 3000 fanti italiani uccisi) partendo dalla strage, messa in
atto dalla militari della divisione Goering dal 4 all’11 luglio del
1944, che sconvolse (le vittime furono 192) il suo paese Cavriglia
(del quale, tra l’altro, Boni è vicesindaco) in provincia di
Siena. “Testimonianze di eroi del quotidiano, com’è quella di
Bruno – ha concluso Boni – sono le migliore scorta a chi oggi
viene minacciato perché è stato internato in un lager”.
Kaswalder:
un grande esempio, una testimonianza che mi ha commosso.
Il
presidente del Consiglio, Walter Kaswalder, al termine dell’incontro,
organizzato dall’Associazione nazionale Brigata Acqui, ha
consegnato l’insegna del Provincia autonoma di Trento a Bruno
Bertoldi. Un atto simbolico, ha aggiunto dichiarando di essersi
commosso durante il racconto dell’anziano soldato della Acqui,
perché l’emblema della nostra autonomia è un segno di pace.
Inoltre, ha affermando
aprendo l’incontro, testimonianze come queste, oltre a farci capire
che la pace rimane il bene più prezioso, servono a farci capire il
valore delle generazioni che hanno affrontato la guerra e la
ricostruzione e di quanto siamo loro debitori. Un grazie a Bruno,
oltre che dal presidente dell’associazione Acqui, Franco Menapace,
è stata espresso dal sindaco di Carzano, Cesare Castelpietra.